venerdì 27 ottobre 2017

Conte al Mocambo




AVVENTORI 

AVVENTURIERI



 di Matteo Tassinari 

 Era un mondo adulto,
si sbagliava da professionisti  
Messico e nuvole,
la faccia triste
dell'America
TRA I PICCOLI GRAN DI miti creati dalla poesia in musica di Paolo Conte, ce n'è uno che più di altri sembra poter racchiudere l'intero universo dei suoi primi lavori. Una parola sola basta a designarlo, parrebbe impossibile, una stilla a spiegarlo, illustrarlo come un uomo sandwich in giro per la città fantasma e ostica, continuando a mangiare e a bere sempre nelle ore sbagliate. E' una parola che contiene un mondo completo d'universo e cosmi gravitazionali, nostalgie di certe infinitudiniAnzi, due mondi. Uno dei quali è coperto di nebbie e brinafoschie e caligine, e anice al Tropical Habanera del Politeama che riempiono di dolcezze, le perfette pianure, inamenando interni motel dove cercano teneramente casa gli amori illeciti, artificiosi, complicati, spesso tristi e dandy, atmosfera da tornei di scarpe da mocassino del secolo scorso, s'abbracciano come rondini le nostre province in certe ore e in certi venti di allegri brindisi conditi da pianti e flatulenze di pittori incompresi e mammoni. Scoregge che, oggi, mi mancano. Mi piaceva quel puzzo, se non altro era sincero, e ricordava anni belli. Anni in cui parecchi naufraghi di terraferma tentano di avvistare le luci di qualche bar al quale approdare e assaporare certe bionde procaci di parrucca truccate, impudenti e distratte le giarrettiere sospirate e sudate, ora posso annusarle.


Pioggia e nebbia delle  
esotiche province

Come mi vuoi, cosa mi dai, dove mi porti...   


L'ALTRO MONDO, invece, si muove a passo di rumba, a volte rallentato nella malinconia del tango e splende di mare e di sole, di aromi e afrori, di cieli e di linguaggi più grandi e colorati dei nostri, di palmizi dondolanti di avventurieri e circumnavigatori. Due mondi che, a ben vedere, non sono mai nettamente separati. Sono anzi la loro interazione, il loro reciproco rilanciarsi a costituire l'originalità di molte delle più belle canzoni di Conte. Perché anche i testi più smaccatamente esotici, hanno il sapore amaro d'un sogno d'evasione o forse distrazione che nasce nel fondo della provincia, dai ricordi di focolai e polenta, castagne e vin brulè, e non sa veramente uscirne da questo mondo, a meno di un approdo nel solo luogo esotico di Conte che non è puro sogno: Genova. Genova tra i colori e gli odori bastano d'altronde a far ritrarre spaventato il sognatore di oceani e degli abissi, delle verdi milonghe in un quadro di piogge e nebbie. Pensare che anche le più chiuse, claustrofobiche "storie" della provincia vivono sospese vertiginosamente sulla eventualità di un'apertura esotica che è in attesa dietro ogni angolo, nell'ombra di qualsiasi cortile, fra le ombre di probabili mansarde, come fra i pertugi di una qualsiasi cantina, fra le canzoni di un mancato avvocato astigiano. Bop.


Mocambo
Il Mocambo in fiore dopo precipizi di solitudini 

La ricostruzione del Mocambo

C'E'UNA PAROLA che meglio di altre contiene tutto questo: Mocambo. Trovata geniale ché è difficile immaginare idea più provinciale e di cattivo gusto di intitolare così un locale. Il che non basta però a togliere alla parola una sua vera risonanza di mondi diversi e grandi, un sentore infinito di caffè che va a convogliarsi in un ritmo di rumba. È il luogo, il bar Mocambo, in cui due dimensioni si mescolano e si confondono e rivelano d'essere una sola, in cui la tristezza marron di un tinello e la gioia fulva di una pelle di coccodrillo convivono, confinano si scambiano le parti, fino a ridurre il vasto mondo a un catalogo di kitscherie e a restituire alla piccineria provinciale una sua orgogliosa grandezza, come uno Sparring Partner, ma solo per amore. Nel 1979 i primi tre dischi di Paolo Conte avevano già ben delineato la strada che volevano percorrere, quella che porta alla Verde Milonga inquieta che offre accordi di tregua tra dita e tastiere, l'intreccio che fa vibrare lo stato passional y teatral in modo suggestivamente prodigioso. Di più non so.


Tristezza
marron tinello

Un mondo di perline
colorate, ti darò
NON E' UN CASO, QUINDI che una trasmissione radiofonica realizzata dallo stesso Conte e da Diego Cugia andata in onda su Radio Uno in dodici puntate abbia avuto il successo riscosso. La trasmissione nasceva infatti come un cocktail di situazioni tipicamente contiane e come un cocktail di personaggi che ne erano l'incarnazione dei personaggi uniti dalla trama esile e pretestuosa di una storia che, a risentirla oggi, sembra faccia il verso agli intrecci di certe sconclusionate telenovelas dove, nell'illusion, che tutto accada, nulla accade.


L’ORMAI


HA UN PROTAGONISTA, la storia. Si chiama Ezio Ormai. Ma si chiamava Ezio forse, Ezio riproviamoci, Ezio eventualmente e si chiamerà Ezio senza tregua. Tutti i nomi, cioè, del dubbio, della fatalità, alla ricerca del favoloso e contemporaneamente delle scelte rischiose e della caparbietà. È il padrone e gestore del Mocambo, ma questo non è che uno dei tanti Mocambi che ha già fondato e che fonderà, in ogni angolo del mondo e del tempo. Perché il Mocambo non è un locale, ma una vocazione, uno stile di vita, una dimensione, un'estensione del proprio egocentrismo, un pensiero fisso, il senso di una vita, un modello esistenzial, qualcosa di tropical e non può essere altrimenti per chi, come Ezio Ormai, è un vero mocambero.


io sono qui, sono venuto a suonare, sono venuto ad amare,
e di nascosto a danzare

CIOE' UN UOMO CHE HA TANTO passato alle spalle, è un piccolo avventuriero, i grandi avventurieri esistono solo nei sogni e nei film, e forse neppure lì. Una persona che vive di espedienti, che conosce l'alchimie dell'accorgimento, lo trovi stando ai margini di un mondo che è comunque sempre più distrutto e desolato, afflitto e rattristato del suo cuore malinconico, come nella Topolino Amaranto, quando l'euforia folle del protagonista sembra sorgere per contrasto col paesaggio di rovine e detriti che la sua baldanzosa macchinetta attraversa con nonchalance il centro della piazza. Ezio non ha identità, forse perché ne ha troppe, non è un caso di schizofrenia, è che è troppo sensibile, perché “è” stato troppi personaggi e ha aperto troppi Mocambij. I suoi documenti sono certamente falsificati, non tanto per sfuggire a creditori e nemici di cui deve aver fatto collezione, quanto perché un autentico mocambero, fin dalla nascita, non può possedere un documento vero è, per vocazione, un altro anche rispetto a se stesso. Un po come il Rick/Humphrey Bogart di Casablanca, che è forse il prototipo di tutti i mocamberi, nasconde sotto una scorza di cinismo un'umanità profonda, dietro la scontrosità una grande classe, un senso istintivo del saper vivere. Fa anche sfoggio di un italiano forbito, quello, ci dice Conte con ironica sapienza, che soltanto le persone ignoranti sanno usare. Tutto sembra rimbalzare sulla sua faccia impassibile, ma nessun sentimento gli sfugge, nessuna sfumatura si perde ai suoi occhi.
Vieni via con me


Le donne

  odiavano

Dove sono i colleghi?
il jazz

QUESTA SUA SAGACIA, QUESTA attenzione al particolare, la esercita soprattutto al mondo femminile. Come certi grandi misogini, sa tutto delle donne, anche se lui continua a dire che non le conosce e non le conoscerà mai, e non vive che per loro. E le donne, naturalmente, lo amano, come odiano il suo jazz, attratte da quel suo grugno di coccodrillo. Da ogni attimo del suo passato, dai luoghi più improbabili, donne dai nomi ancor più improbabili gli telefonano per rievocare e commuoversi, si capise, 80 primavere sono abbastanza per ricordare. Conte resta segreto e pudico, fino all’ultima nota, fino all’ultima rigo di pentagramma, mai biografie, niente confessioni. L’elissi preferisce, l'omissione di una frase, di un elemento sintattico che si sarebbe obbligati a sottintendere. Il mistero e i suoi testi, con l’andar degli anni, diventano sempre più sibillini e in Aguaplano (velivolo misterioso ma che gli sembra d’aver visto da qualche parte dell'oceano) offre tutto questo misticismo Bohèmienne all'Osteria dei Binari, fatto di parodie e alberghi tristi e luci che saettano sul volto pechinese della cassiera in un vortice di Boogie-boogie che lascia invorniti.

L’orchestra era viva

partiva...


DECOLLAVA!


Mi avrai verde milonga inquieta che mi strappi un sorriso
di tregua ad ogni accordo mentre... mentre fai dannare le mie dita...
UN DEDALO DI NOTE E grappoli, di semitoni da sbrigare nel volgere di un paio di plettrate o nel bongo dove rimbalza il gomito del tucano. Bibendum, arcimboldesco montaggio di pneumatici, fasce elastiche, camere d'aria, gomma urbica e gran bevitore di lattice e un coyote che ulula in lontananza la propria e l'altrui puzza. Tra tutti costoro si instaurano dialoghi pieni di tormentoni e tic provinciali, il cui contenuto è una collezione avventurosa nell'esotismo dello spionaggio e del contrabbando: tigri e leopardi, maragià e gauchos, azzardi e scommesse, sparizioni e mascheramenti, Istanbul e Guadalajara, Baghdad e l'Oregon, Sumatra e Berlino, con continue strizzate d'occhio al cinema hollywoodiano, frammenti voluti o ricordi inconsci di beau geste, Casablanca, GungaDin, ai romanzi di Salgari e ai fumetti di Jim Toro. Il tutto sospeso tra il barone di Munchausen e "La camera da letto di Van Gogh" e nostalgia reale, quella che spariglia la forfora sul paltò.


Lasciateci ai nostri

temporali


Paolo Conte, il dandy ottantenne, tra cinema, jazz ed enigmistica
QUEL MISTO DI VICINO e lontano, di affetto e disincanto che è proprio anche della colonna sonora. Dove la rumba si alterna al valzer inglese, Charlie Parker a Edith Piai, Duke Ellington a Zarah Leander, le grandi orchestre americane ai Beatles, Song O bella mia piccinina. Un gran cocktail anche qui, anzi un gigantesco bric-à-brac, che si stringe e si chiude con coerenza attorno al mondo di Conte. Il quale è presente nella trasmissione nella parte del personaggio più defilato e solitario, apparentemente il più estraneo ai dialoghi e agli abbozzi di storie che legano gli altri: il pianista del Mocambo. BOP. Quando lui parla, tutto il resto tace, e i personaggi sono come risucchiati nell'ombra da una luce coi baffi. S'interrompe la finzione, la messa inscena artificiosa, tutto parlato in "alascano all'addiaccio" inizia una finzione più alta, una messinscena meno convenzionale di quelle a cui siamo abituati, sempre sull'orlo di importanti verità, ma con l'aria pigra, volpina, di chi finge di non volersi far prendere sul serio. È lui che tiene le fila, è lui il solo a saper tutto degli altri personaggi. Ma su di loro è enigmatico, reticente, preferisce lasciarli avvolti nel pudore di quel poco di mistero che li fa interessanti. Tocca la tastiera con mani da burbero, e ha un grande repertorio: le canzoni di Paolo Conte.

domenica 22 ottobre 2017

Padre David Maria Turoldo


Respira una pianura rotta solo dagli eguali ciuffi di sterpi
in essa unico albero verde, la mia serenità

Il poeta di Dio


E io a domandare alle pietre agli astri
al silenzio: chi ha veduto Cristo?
IL GIOVANE DI OGGI HA DEGLI SVANTAGGI
spaventosi, micidiali, sebbene lui stesso pensi che siano tutti vantaggi, ovvero gli manca la consapevolezza del suo disagio. Il primo svantaggio, è quello di viverenell’abbondanza, sia pure da disoccupato. Noi viviamo su di un
baratro, sul ciglio dell’abisso, la terra
la possiamo distruggere con le nostre stesse
mani, la scienza è scatenata su tutti i
panorami ch'essa esprime, tutto è lecito perché tutto è possibile, prendere
coscienza di questi problemi
realizzare la nostra umanità.   


Io non ho mani
che mi accarezzino il volto,
non so le dolcezze
dei vostri abbandoni.
Ho dovuto essere
custode della vostra
solitudine: sono
salvatore di ore perdute
    Un Dio che pena
    nel cuore dell'uomo
L’UMANITA' E' sempre un di venire, è sempre un farsi, è nata una nuova possibilità, di bene o di male non lo sappiamo, l’umanità non è un dato oggettivo, l’uomo è in costruzione continua. Non si piegò a nessun potere con grande umiltà. Neppure alla sua stessa malattia, il “drago che si è insediato nel mio ventre”, come chiamava il tumore che l'aveva colpito e con il quale ingaggiò una battaglia, quasi un corpo a corpo sfiancante, fino all'ultimo, quando con la flebo nel braccio mentre faceva una seduta chemioterapica spiegava lui, il "drago" (il tumore che l'aveva avvinghiato), il dolore e Dio.

Figura 
imponente e serena


ASCOLTA IL NOSTRO GRIDO,
O GIOBBE
Ma ora a noi avanzano
E senza scampo sono le nostre vite
In queste città maledette.
La morte siede sugli usci delle case
o con gli zoccoli di cavallo va per le strade
in stridori di migliaia di trombe;
o volteggia trionfante
sul capo in risa di corvi a stormo. 
Invece fiorito è il deserto, popolata
di uccelli e di alberi la tua solitudine
angeli danzano al canto nuovo
PER RICOSTRUIRE LA figura di David Maria Turoldo, ci sono voluti ben otto volumi più i vari aggiornamenti di anno in anno. Quando morì, il 6 febbraio 1992, fu davvero poderosa la processione spontanea del popolo di Milano, che andò alla chiesa di San Carlo al Corso, dove era arrivato, giovane, dal Friuli, per dargli l'ultimo saluto. Un poeta innamorato di Dio, un animo inquieto, un religioso fuori dal gregge che urlava dai tetti la voce di Dio, come dice di fare Cristo! La sua voce libera, scomoda, meditativa, a volte disturbante, è una grande eredità che arricchisce chi soffre e non riesce ad emergere perché la vita gli soffia contro. Ermes Ronchi, frate dell'Ordine dei Servi di Maria, conosceva molto bene padre David. Di lui dice “mi colpiva, da un lato, la sua forza contadina, l'imponenza fisica, l’irruenza come di un antico guerriero, di un vichingo. Dall’altro, i suoi occhi sempre chiari e infantili. Affascinava quella voce profonda e vibrante, da cattedrale nel deserto, e il sorriso invincibile degli occhi azzurri”.
Gli occhi miei lo vedranno 
"In questo slancio finale, non cedere cuor mio alle sovrane stanchezze, non sarà certo lunga l'attesa e non perdere  tempo affinché, questo mio essere presente, questo darmi ancora e lasciarmi divorare, ora con la morte ultimo dovere, vorrei sdebitarmi e pagare e pagare lietamente il pedaggio d'entrata".   

UN FILOSOFO SOSTIENE che c’è un duomo, di cui non si vede mai la cupola, e lo conferma Kierkegaard che quando nasce un bambino nasce un infinita possibilità. Tutti vogliamo diventare avvocati, dottori, giornalisti, statali, insegnanti, nessuno più vuole più diventare un uomo o una donna. Penso che sia il valore che più ci manca quello dell’umanità. Al suo posto l’ha preso ciò che il mondo d’oggi definisce come progresso. Il progresso non è inventare nuovi computer, macchine, ricerche sui vaccini, guardate l’Aids, non è un magnifico business per Big Pharma? Certo che lo è e tutti lo sanno, ma nessuno dice nulla, questi sono i grandi peccati contro l'umanità, perché, per di più, non si scoprono neppure. La gente è diventata di una superficialità spaventosa, tutto è banalizzato a seconda degli interesse dei potenti e delle multinazionali.


Orizzonti
Questi i miei giorni
e la verità senza amore
Vuoti di pudore

i miei canti senza note
 più ampi


TUROLDO ERA UN UOMO di grandi passioni e di grandi meriti, ma quello che io coglievo ogni volta che lo vedevo, era questa libertà che emanava su tutto i fronti. Un uomo che ti aiutava a buttare via dalle braccia e respirare orizzonti più ampi. Non che l’abbia conosciuto, anche per questioni di date, ma You Tube, la parte migliore del web, mi ha detto tutto del poeta di Dio. Una delle frasi che amava ripetere, era "raggiungere totalmente la nostra umanità. Mi possono cacciare fuori dal convento, ma io rientrerò dalla finestra". Sembra di sentire Papa Francesco quando ha detto ai prelati, che i preti devono avere addosso il puzzo delle pecore, per dire che devono condurre una vita parsimoniosa, perché solo così si è credibili. E' facile fare beneficenza con l'autista sotto casa a disposizione.
Padre David Turoldo
poco prima di morire

HA DATO LA PIENEZZA di essere frate di Maria, questi frati ancora medievali legati, come lui ripeteva, alle nostre origini più profonde e dimenticate. Ma Turoldo ci ha dimostrato che pregare e scrivere poesie, coincidevano. In fondo, come dice anche Rilke, la poesia è una preghiera non vanitosa. Turoldo non era un lirico delle rime,non era uno stile alato il suo, poco evanescente, ne bucolico, o un romantico sognante armonioso travolto da un vortice pindarico. No. Padre Turoldo era un “passionante” di Dio, amava Dio come facevano i preti che andavano a benedire i moribondi agonizzanti a casa sua nel loro letto nella libertà del Mistero.


Il passionante di DIO


Lo stupore del silenzio




V
orrei una


Chiesa scalza
Padre David Maria Turoldo
COSA DIREBBE OGGI Padre Turoldo alla Chiesa? Che deve essere scalza. Priva di paramenti e ninnoli lungo vestaglie ricamate e intarsiate, a Turoldo piaceva la chiesa scalza, quante volte l’ha ricordato, molto prima di questo attuale Papa che sostiene la stessa linea episcopale di Turoldo. Ai cristiani direbbe fedeltà e libertà contemporaneamente. Turoldo non si mimetizzava. Oggi abbiamo istituzioni, organizzazioni, gerarchie, singoli cristiani che si mimetizzano dietro all’omologazione ed a ciò che la maggioranza pensa. Perché se vuoi essere coerente alla tua vocazione, ideologia, passione, per forza devi essere contro il sistema, era un concetto che appena poteva lo infilava nei suoi magici incontri, carichi di una poesia e forza e rabdomanza. Beati coloro che hanno sete e fame di opposizione. E’ anche questo il compito per cui sei stato chiamato a vivere, per la giustizia profonda, totale e piena. Siamo chiamati verso il tutto ma arriviamo dal nulla, dal non so, noi siamo su questi due giacigli.


Sempre pronto ad ingaggiar
battaglia col sorriso

Pietr

e

scolpite


INVECE DI ANDARE dal nulla verso il tutto, facciamo il contrario, dal tutto andiamo verso il nulla, come si fosse invertito il senso di marcia. Più sei credente più sei libero. Non per nulla si definiva "servo e ministro della Parola" biblica, da lui cantata, approfondita, celebrata, tant’è vero che nelle sue moltissime pagine si può percorrere l’intera sequenza delle Sacre Scritture. Proprio per questo il cardinale Carlo Maria Martini, consegnandogli il Premio Lazzati aveva trovato nella figura e nell’opera di padre David il respiro dei profeti biblici, la voce che esce dal roveto ardente del Sinai e che sprizza come scintilla dalle pietre colpite dal martello di Dio, per usare un’immagine del profeta Geremia. 

domenica 15 ottobre 2017

Descansate Niño, che continuo io

Ah... io sono qui, sono venuto a suonare, 
sono venuto a danzare e di nascosto ad amare












di Matteo Tassinari

Le donne odiavano il jazz
Via, via, non perderti per niente al mondo lo
spettacolo d'arte varia, di uno innamorato di te

E' tutto un complesso di cose e di arte varia di uno innamorato di te. Un cultore  di enigmistica classica come Paolo Conte, è il più amorevole ed esperto nello spostare e sputare le parole giuste, collocandole al posto giusto, sempre, contorcendo sillabe e conati nasali come il miglior alfabetiere conosciuto sullo scacchiere italico e perché no... mondiale, che provano, ci danno forte, ma non gli arrivano. Il Conte è fuggito, troppo  avanti, si dice perché sia rimasto indietro. Roba da poeti con la camicia hawaiana. 


L'uomo del Mocambo



  SERRANDEABBASSATE


Pioggia insegne delle notti andate


Se nel sesto disco, quello centrale della carriera di "Paolo Conte" che recita proprio il suo nome e cognome come titolo, i testi erano quantitativamente minori, ma per qualità pur sempre amalgamati alla musica,  avevano tuttavia una loro cronicità attuale compulsiva. I testi, talvolta e per i più beghini distratti, sembrano un accessorio subalterno alla musica, un'alternativa stessa alle note che sono state prescelte per seguire quel testo e non un altro, pur segnando di per sé esiti mirabili come sempre. Max (brano conturbante, triste per quanto misterioso), in Olanda è stato "Disco d'Oro" e di "Platino", anche in 45 giri e il suo fascino nell'assenza stessa di testo, nella sola atmosfera e in quel ripetere ossessivo la stessa frase misteriosa che allude per forza a qualche cosa di tenebroso, fino a giungere alla simpatica e coinvolgente per quanto bizzarra in tutto, Sparring Partner, l'illuminazione di chi non ce l'ha fatta con la boxe di seconda mano. Un disastro nel cuore, una tempesta nelle emozioni. "Intanto io rifletto, forse la vita è tutta qua. Abbiamo un bel cercare nelle strade e nei cortili, cosa c'è e non c'è. C'è un mondo che si chiude se non ha un pugno di felicità. Io sono sempre triste, eppure mi piace sorprendermi felice insieme a te". Dopo le metafore, molto spesso c'è la farmacia. E ci si perde, sgretolando i sentimenti grandi e vissuti.

A MEZZANOTTE, TUTTO TI DIRO'

Eravamo al Mocambo...
Nous sommes ici,
mais ici où?




















Jazz

Poche donne amano il Jazz. Anche se ai miei spettacoli, intravvedo nell'ombra tante donne, chissà perché? Qualcosa mi sfugge". Un iniziale clima soffuso, con piano, sax, contrabbasso e tromba in sordina, poi un'esplosione di voci e fiati che inebriano. Il sassofono di Antonio Marangolo, disperato, introduce la melodia di Jimmy ballando. "Non pensare Jimmy, zitto, che il nemico ci ascolta, oh Jimmy, non giurare con te stesso. E' l'ultima volta. Ne abbiamo viste tante di regine andare sull'altro marciapiedi al sole e noi nell'ombra è sempre così, Jimmy, ridendo e scherzando", per poi aprirsi ad Irving Berlin, compositore e proprietario della music Theatre Box di Broadway. Qualche brano è una suite strumentale, un piccolo poema sinfonico del novecento arricchito di raffinate sfumature virtuose col Kazoo e carnali esotismi poetici. Un modo di costruire musica e canzoni senza il tremore del passato esaltando quello che secondo Conte sono stati gli anni più belli della storia di questo mondo, dal 1910 a prima del Fascismo. In pratica, e ovviamente. Figuriamoci.
Jimmy ballando, ballando
Paolo Conte allo Spectrum, Parigi 
NON TRATTASI PIU' di canzonetta, ma di confezione internazionale per un mercato raffinato, molto orfano di nuove suggestioni sudamericane ma non per questo leggiadro, anzi, spesso molto tragico. Ineccepibile ovunque, Conte, non si risparmia mai. Canta a Parigi, Belluno, New York, Rieti, San Paolo o Campobasso, nulla cambia, importa suonare. Va detto che i suoi  concerti registrano sempre esaurito al totale e questo non sorprende. A volte l'esaurito è di 500 persone, pagando il prezzo di un biglietto dal conto stratosferico che ora non saprei quantificare precisamente. C'erano ancora le nostalgiche lire e Conte chiese un biglietto di 400 mila lire nei posti più sfigati. Nemmeno a Londra si paga così tanto: "Purtroppo è lo spettacolo a essere molto costoso", dice Rocco De Venuto organizzatore della Camerata musicale del Petruzzelli. "Ci sono 11 elementi dell'orchestra e il cantautore arriverà con un volo privato". Che chiedesse anche di più, li varrebbe tutti. E mi vien da ridere, perché io sono istintivamente con Conte in tutto ciò che fa. Qua in Italia non se lo caga nessuno o quasi. Vai in giro per il mondo e scopri quanto ce l'invidiano e noi imbecilli che neanche sappiamo chi sia l'avvocato mancato (per fortuna) di Asti. Chi canta come lui? Chi allestisce un momento lungo 2 ore dove la testa viaggia come quella dei bambini adulti. Chi crea atmosfere così intense e brillanti? Assolutamente principianti. Per sempre. Così eravamo noi, nei ragazzi del jazz. 
IL Gagà SELVAGGIO

CONTE CANTA INCANTANDO ANCORA, certo, e anzi sembra passare a suoni di più serio spessore proprio perché parallelamente ha educato la voce a crescere nel primo periodo, i suoni dei dischi erano intelligentemente adeguati alla "povertà" maldestra del calembour, quando sta al pianoforte (magari verticale) era uno sferragliare alla guida di un trabiccolo somigliante più ad un automobile. Molte sono le sue esperienze di musiche di scena come autore di colonne sonore per il cinema e per il teatro. E' significativo che alcune di quelle che oggi noi conosciamo come canzoni esistevano già come temi strumentali scritti per il cinema (Max, Jimmy ballando, Hesitation) e là, dove nei film è previsto un testo originale e ancora Macaco, Le chic et le charme, tapis roulant, Sontuoso misto mare, Locomotor e Habanera.
Brani adeguati alla "povertà" maldestra dei calembour, come quando sta al pianoforte (magari verticale) e ci si attorciglia sopra e sotto, come uno sferragliare alla guida di un trabiccolo somigliante più ad un automobile E GODE, GODE, GODE, SI VEDE CHE GODE. Caspita! Se si vede! Paolo Conte, canta incantando abboccando l'ultimo passo della verde Milonga che dannare tanto fa i polpastrelli incalliti dei musicisti.  
Si nasce e si muore soli.
Certo che in mezzo c'è un bel traffico



ANCHE SE CONTE vi si pone con taglio vivo e moderno. Un distacco illuminista e nobile, dell'ironia selvatica, violenta, istrionica, plebea e cavallerescamente auto-ironico. Mai prendersi sul serio, non so se l'abbia pensata mai questa frase, ma nelle sue canzoni si respira questo stato d'animo in misura extralarge. Assoluto disinteresse per l'attualità e tutto ciò che la circonda, ma non per la storia che ama. Un macaco senza storia, che si sente come Gongo, prima che arrivi. I rumori annunciano il suo ingresso sulla scena del Politeama.
Il magico Teatro Politeama Palermo
AIUTO, vieni via con me
un'implorata proposta di una fuga d’amore
FU COSI' CHE c’innamorammo tutti, chi prima chi dopo, di Paolo Conte. Tutti a scriverne, tutti d’accordo nel cantarne le lodi di un artista così diverso, così unico, così stupefacente, così baffuto, osì struggente. Uno spettacolo d’arte varia, in un eccellente cornice orchestrale. Una presenza originale e intrusiva, per chi ci coccia, nella scena musicale del nostro tempo, che da decenni si esprime con dischi e concerti magici. Autore di letteratura moderna che non dimentica d'essere un "equilibrista" alla fine di ogni concerto col passato '900. Inizia ad essere un poco stanco. E se arriva l'applauso, è proprio l'applauso da circo, da saltimbanco che gli interessa, più delle ricerche che qualche musicofilo che ha elaborato su sue canzoni. Gli anni dell’adolescenza e della mescolanza dei Gender-Music-High, segneranno la sua vita. Trascorre i pomeriggi leggendo Salgari, Verne, Dickens e Pedrito El Drito, personaggio di Antonio Terenghi, in breve il meglio della lettura romantica, avventurosa e magica in circolazione nei primi anni 50.
Era un mondo adulto,
si sbagliava da professionisti

Sotto    le
stelle
del Jazz
NEL FAVOLOSO ventennio '50- '60, carico di speranze e illusioni, Conte comincia a scrivere canzoni per tutti a raffica senza calcar le assi chiodate. Inizia a studiare pianoforte con esiti strepitosi. Ha modo di conoscere le Pop Stardella belle époque e dedicandosi al loro successo con i brani scritti da lui elevando il livello medio del panorama musicale italiano. A Celentano regala "Azzurro", all’Equipe 84 dà "Una giornata sul mare""Insieme a te non ci sto più" la da a Caterina Caselli"Mexico e nuvole" per Enzo Jannacci e per Patty Pravo invece scrive "Tripoli ’69" impiegando mesi a spiegarle che non c’è nessun doppio senso nel titolo. Giunge il successo travolgente con canzoni come "Genova per noi", "Onda su onda", "Bartali(doveva chiamarsi Merckx, ma con le rime come la si metteva dopo?), che consacra Conte come il più originale degli autori italiani in attività. Ma è giunto il momento. Conte decide d’interpretare le proprie canzoni. Nonostante il successo mondiale non dimentica chi gli è stato vicino agli esordi. Ed è proprio a Celentano, che Conte gli dedica un altro dei suoi capolavori, "Azzurro".
"Non sono introverso.
Mi diverto più quando sono solo"
SAREBBE INGRATO parlare di Conte col consueto metro dei successi ottenuti, le canzoni e nozionismo di vario genere, solo contabilità. Ciò che più colpisce di quest’uomo, è che ha molto del gorilla-macaco, quando nel cono di luce creato ad arte che lo incastona in fondo al palcoscenico su un pianoforte a coda e muoversi claudicante che sembra grattarsi mentre grugnisce con le labbra appiccicate al microfono fino ad ingoiarlo, ormai. In questo gioco musicale, testuale e interpretativo, tra nobile e plebeo, tra l'alto e il basso, in quest'oscillare tra l'aulico e il dimesso, realizzato dagli abozzi dell'amico morto Hugo Pratt, dal compiuto al non finito, in questo continuo porgere e sottrarre, esibirsi e ritrarsi.
Lasciateci ai nostri
temporali
Jino Touche,
mauriziano 
UN'AUTOIRONIA, COSCIENZA critica che gli permette sempre di  prendere le distanze dallo strumento e orchestra con cui si balocca, ma al tempo stesso glielo fa perfezionare con accuratezza mai appagata. Certi brani confermano la mia idea. Come la visionaria "Max", la malinconica "languida", esprimono di più con le note che con le parole e senza testo sarebbe solo un bel rumore: "mi avrai, verde milonga inquieta che mi strappi un sorriso di tregua ad ogni accordo, mentre fai dannare le mie dita…. Fin che Atahualpa o qualche altro dio non te dica descansate niño, che continuo io... Ah, io sono qui, sono venuto a ballare, sono venuto a guardare e di nascosto a danzare".
Il blues fu, in modo molto specifico,
la musica dei neri più poveri e meno rispettabili
FRA PAOLO e la musica c’è un amore viscerale. Il Jazz? Una passione. Il Tango? Un’avventura. La Milonga? Una tenerezza. Il Mocambo? Un'allegria. Da ciascuno prende quel che gli serve, cioè il meglio. Un accordo, un arrangiamento, un tempo, un svisata guascona, una doppia battuta d'orchestra, tutto volge al perfezionamento slabbrato, vintage, consumato. Per poi tradirli tutti confondendoli (per troppo amore, non v’è dubbio) generando una musica senza tempo sospesa in un limbo dove tutto oscilla, nulla è fermo.
Non perderti per
niente al mondo,
lo spettacolo
d'arte varia di uno
innamorato di te      
Blù Tango,
Blues Tango…
IL BLUES DIVENTA Tango, il Tango diventa “Blues-Tangos”. E questo illanguidisce, culla, commuove, “surrealizza”, mette voglia di bere roba pesante, lo stato d'animo di chi a teatro ha avuto la sana esperienza di ascoltarlo e vederlo pigiare come un operaio sui tasti del piano nero a coda. Le sue musiche, sempre evocative di un qualcos'altro con risonanze molto sgangherate e sviluppate con sapienza musicalmente anarchica, sono in realtà rifacimenti che permettono più livelli di lettura, dove in una canzone non vi è un solo è univoco messaggio, ma tanti significati e ambasciate in una missiva. Molti percepiscono la musica di Conte come un Jazz antiquato o un blues andato, straniato e stravolto o ancora come una ballata messicana. Forse è un miscuglio di tutti e tre gli stili. 

Oltre le illusioni di Timbuctù e le gambe lunghe di Babalù c'era questa strada... Questa strada zitta che vola via come una farfalla, una nostalgia, nostalgia al gusto di curaçao. Forse un giorno meglio mi spiegherò

UN KAZOO PER MOZART


CONTE AGGREDISCE le sue canzoni, le mastica, le sputa, le biascica, le frantuma, le rivolta, scava dentro le atmosfere e ne restituisce il suono primigenio, le lascia a mezzaria per poi raccoglierle al volo come l'illusionista più giocoliere in un "acrobatico mestiere", disse quando nel 1974 si mise in proprio cantando ciò che aveva fatto sempre cantare ad altri. Comincia così con ineffabile serietà, a storcersi e contorcersi all'altezza del microfono appoggiato sopra il pianoforte che pare quasi stia per mangiarselo o farsi mangiare. Annaspa, arranca, spalanca, con le mani sui tasti bianchi e neri, fatica star dietro agli archi avviati, brancola, barcolla, brontola, si dibatte fino a quando non si trasforma e deforma nel personaggio che sta cantando. 
No, certe cose non si scrivono,
che poi i giudici ne soffrono
E LA FACCIA seria si trasforma. Un occhio chiuso, una smorfia nell’altro angolo della bocca e la mano che graffia l’aria come un richiamo per l'orchestra, un segno, un punto che avverti, t'accorgi subito nell'evoluzione degli arrangiamenti musicali. Un orso arruffato che sbadiglia nella sua tana. Poi raccoglie tutta la musica e le parole che ha dentro e le spernacchia nel Kazoo, surrogato di quell’orchestra diretta dal maestro racchiuso nel suo fascio di luce a cono di un riflettore potente, intorno a lui, il buio. Il finale è una miscela che con la sua impetuosa vitalità travolge l’atteso con un inatteso carico di estro, arguzia, spigliatezza, lasciando dentro a chi ascolta, una traccia viva, un sapore inconsueto e contrastante e la consapevolezza, solo accarezzata, di aver visto balenare la poesia, grazie al "vino che spara fulmini e barbariche orazioni che fan sentire il gusto delle alte perfezioni".
Ossigeno, ossigeno in più, pompano le casse audio in concerto, le Behringer.
L’ORCHESTRA di Paolo Conte al completo.
Un esnsemble musicale che indica l'utilizzo contemporaneo
di tutti gli strumenti e di tutte le voci presenti in musica

L'orchestra,



decollava
LE CANZONI romanzate dell’avvocato astigiano arredano un mondo di provincia “universale” con i suoi sapori, umori, rumori. Le nostalgie ziesche, le costanti partenze, la nave come donna di cuore, l'orchestra che si dondolava come un palmizio, le lampade al lampo, i temporali afrodisiaci, chi teneva la porta aperta davanti alla primavera, la pista dei boschetti e poi una città rifatta da ragazzo e ritrovata in parte a Genova, la madre della favole del mondo di Conte.
STRIP di Paolo Conte
POI la sorpresa evocata, desiderata, agognata, il cammino fra le cose per renderle immense, monumentali, con un’operazione d’odio per tutte le retoriche assenti e presenti. Parte da lontano la sua musica. Attraversa tutto il ‘900 portando con sé lo spirito dolce di un secolo terribile e di tutte le sue varietà musicali. Oscillante fra Jazz e canzone d’autore, raccoglie e fonde varietà musicali. La vena ironica si scopre nelle situazioni narrate per immagini che si accumulano, nel linguaggio brioso e bizzarro, ricco di ritmi e impennate, nell’interpretazione vocale dell’autore dalla quale è impossibile prescindere. Situazioni che spingono al sorriso o forse sarebbe meglio scrivere alla complicità, senza invitare mai al riso, si dispiegano con naturalezza tigrata o maculata. Persino le immagini che richiamano fughe verso paesaggi esotici lasciano intatta l’impressione di assistere allo scorrere di una pellicola d’epoca. Il linguaggio distante è uno sguardo sul mondo da un’angolatura mai svelata ne capita, offrendo al tutto un’aria di mistero e di non detto per incapacità, forse. "Le donne non si capiranno mai. Neanche tra di loro si capiscono, figurati se ci riusciamo noi uomini".
80 autunni, più che primavere

Forza
Paolo,
è ora!
L’UNICA VOLTA che intervistai Paolo Conte fu nel 1997 in piena primavera al teatro Petrella di Longiano per la conduzione dell'art-director Sandro Pascucci che sapeva raccogliere il meglio (come anche Fabrizio De André, Fossati, Conte, Capossela...) che gli anni ’90 offrivano e mi sono vergognato come poche altre volte m'è accaduto nel mio lavoro.
Libertà e perline colorate,
ecco quello che io ti darò
E LA MILONGA?
Lui sarebbe andato in scena alle 21,30. Io arrivo al Teatro Petrella a Longiano alle 21,08 e m’infilo nel back-stage conoscendo a menadito il retrò del teatro diretto allora dal buon Pascucci, dove attraverso un pertugio nascosto che esiste solo per chi, come me, lo conosce, e saltando tutti, silenziosamente, il pertugio, mi conduceva verso il camerino degli artisti, tante volte l'ho fatto. M'incammino nel corridoio e incontro proprio lui. Capì subito che la fortuna era con me quella sera. Mi avvicinai, mi presentai e iniziò l’intervista. Durata un quarto d’ora, prima del concerto. Apro il block-notes per accorgermi d'essere privo di biro. PORCA ...
La penna d'inchiostro
LUI SEMPRE più goffo e tranquillo, gentile e sornione, mi offre la sua, una penna a sfera che probabilmente poteva essere di Marcel Proust dallo stile e la laccatura in Peltro turco (mi dice notando e ridendo del mio stupore davanti ad un oggetto semplice ma non comune), incastonata di rubini. Pensai: per fortuna che ho dimenticato la mia Bic a sfera, altrimenti avrei fatto la figura del beghino "collotorto" senza neanche accorgermene. Ammesso che l'abbia poi pensato. Passano velocissimi quei 20 minuti che arriva il mio amico e suo tour-manager Renzo Fantini che gli ricorda sull'incazzato: “Paolo, su, è ora!”, facendomi cenno d'aver pazienza. Capisco, soprattutto sento il rumore del pubblico che ha pagato 100 mila lire per vedere e ascoltare alle 21,30 Paolo Conte. Non mi pareva il caso di approfittare ulteriormente. Annuisco, quindi. Paolo Conte resta lì, del resto poco importa. Tanto a Parigi piove sempre. Tutto il resto è già poesia. E torno a Rimini in redazione per scrivere la mia intervista per il Messaggero a Paolo Conte e faccio le 23 spaccate. E' ora di darsi all'alcol.